L’ultima manovra Finanziaria a stanziare fondi
specifici per la prevenzione e la mitigazione del rischio idrogeologico è
stata quella del 2010. I risultati del disinvestimento statale in un
settore delicatissimo per l’Italia sono sotto gli occhi di tutti: l’alluvione di Catania degli scorsi giorni non è che l’ennesima conferma della vulnerabilità del territorio italiano.
Le cifre citate alla Conferenza nazionale sul rischio idrogeologico
tenutasi di recente a Roma sono impietose: 6.633 comuni sono a rischio
di dissesto idrogeologico, ovverosia l’82% del totale del territorio
nazionale. In Calabria, Molise, Basilicata, Umbria, Valle d’Aosta e
Provincia di Trento il 100% dei comuni è a rischio idrogeologico, in
altre, come Marche e Liguria si è al 99%, in Lazio e Toscana al 98%.
Una
vulnerabilità di cui ci si accorge, purtroppo, soltanto nelle
emergenze, quando con urgenza bisogna porre rimedio all’incuria cronica
delle amministrazioni locali. Premesso che vi sono responsabilità umane
anche nella maggiore violenza dei fenomeni meteorologici, gli errori
umani più disastrosi vengono compiuti “a terra” con una politica
d’investimento dissennata e una corsa all’impermeabilizzazione alla
quale qualcuno inizia ad opporsi. Per esempio la Provincia di Torino che
da un paio d’anni, con il progetto Territorio: maneggiare con cura promuove alle proprie amministrazioni comunali il blocco del consumo del territorio agricolo.
Perché
la cementificazione e, di conseguenza, la progressiva
impermeabilizzazione e sterilizzazione del territorio non possono essere
l’unica soluzione di sviluppo.
L’edilizia è in crisi? Si defiscalizzino le ristrutturazioni, s’incentivi il recupero. L’insensatezza del Ponte sullo Stretto, in una delle aree maggiormente sismiche del nostro Paese, quella dell’Alta Velocità Torino-Lione,
su di una tratta nella quale non si riempiono nemmeno i treni merci
attualmente in transito, vendute dalla politica come occasioni di
sviluppo, sarebbero operazioni economicamente concentrazionarie.
Diversa,
invece, sarebbe una politica di recupero, ristrutturazione e messa in
sicurezza del territorio che distribuirebbe lavoro e risorse sull’82%
del territorio nazionale dando una potente boccata d’ossigeno a un
settore in crisi come quello edile.
Secondo l’ANBI, l’Associazione nazionale bonifiche e irrigazione, sul nostro territorio sono necessari, per non dire urgenti, 2943 interventi in aree a rischio di dissesto idrogeologico che movimenterebbero un giro d’affari di 6,8 miliardi di euro con una ricaduta occupazionale su 50mila persone (7 persone per ogni milione di euro speso).
L’affare
lo farebbero in due: le imprese edili e lo Stato che ogni anno (secondo
quanto calcolato in uno studio del consorzio universitario del
Politecnico di Milano) spende 2 miliardi di euro per tamponare i danni
causati da frane, smottamenti e alluvioni. Sempre secondo lo studio del
Poli milanese in Italia 1,2 milioni di edifici sarebbero a rischio e,
fra questi, ben 6251 scuole e 547 ospedali.
I dati ci sono, il
business potenziale anche. Affinché sui cocci del prossimo disastro
annunciato non si eserciti l’italico esercizio della dietrologia
occorrono scelte responsabili nelle quali, una volta tanto, lavoro,
sviluppo e tutela dell’ambiente vadano in un’unica direzione.
domenica 3 marzo 2013
Dissesto idrogeologico: ecco perché “riparare” l’Italia creerebbe lavoro
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